La liquidazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c. ha natura sussidiaria e non sostitutiva

La liquidazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c. ha natura sussidiaria, accertata l’esistenza del danno ed oggettivamente impossibile la sua stima. Cassazione, Sezione VI civile, Ordinanza 17 novembre 2020, n. 26051.

La Massima

A cura dell’avv. Eleonora Pedevillano

La liquidazione del danno ex art. 1226 c.c. ha natura sussidiaria e non sostitutiva, presupponendo l’esistenza di un danno oggettivamente accertato ed attribuendo al giudice di merito la facoltà di integrazione in via equitativa della prova semipiena circa l’ammontare del danno solo quando l’impossibilità di stima esatta sia oggettiva ed incolpevole. Pertanto, il giudice di merito può liquidare equitativamente il danno, in quanto abbia previamente accertato l’esistenza del danno stesso, indicando le ragioni del proprio convincimento.

Il danno patrimoniale consistito nella distruzione di un bene può essere liquidato in via equitativa solo quando chi si affermi danneggiato abbia debitamente provato che la cosa distrutta avesse un concreto valore oggettivo, e non meramente ipotetico o d’affezione. È inoltre necessario che l’impossibilità, o la difficoltà di stimare l’entità esatta del danno sia oggettiva ed incolpevole, ossia non dipendente dall’inerzia della parte gravata dell’onere della prova.

La Nota

A cura dell’avv. Eleonora Pedevillano

Liquidazione equitativa del danno: la natura sussidiaria dell’art. 1226 c.c.

Chiamata a pronunciarsi sul tema della valutazione equitativa del danno in un caso di asserita impossibilità, per parte ricorrente, di dimostrare nei gradi di merito l’esatta entità del danno patrimoniale patito, la Suprema Corte, con l’ordinanza in esame, ha analizzato il tema dei presupposti e dei limiti del ricorso alla liquidazione equitativa del danno, richiamandosi alla genesi e alla ratio dell’art. 1226 c.c..

I giudici di legittimità hanno rigettato le doglianze del ricorrente, secondo cui la Corte d’appello avrebbe dovuto procedere ad una liquidazione equitativa del danno, ex art. 1226 c.c., stante che sarebbe stato “sostanzialmente impossibile conservare alcuna annotazione, anzi alcun ricordo relativo al manufatto acquistato un decennio prima della sua distruzione“.

Richiamandosi all’opinione costante e risalente della giurisprudenza e della dottrina, la Suprema Corte ribadisce la natura “sussidiaria” della liquidazione equitativa del danno, in quanto, la sua applicabilità presuppone l’esistenza di un danno oggettivamente accertato. La previsione di cui all’art. 1226 c.c. attribuisce al giudice di merito non un potere arbitrario, ma una facoltà di integrazione in via equitativa della prova semipiena circa l’ammontare del danno. Il giudice può quindi disporre di tale facoltà solo nel caso in cui l’esistenza del danno sia indiscutibile, ma discutibile ne sia l’ammontare.

Ne discende che, nel caso di danno patrimoniale consistito nella distruzione di un bene, il ricorso alla liquidazione equitativa è ammissibile solo se sia certo, per essere stato debitamente provato in giudizio da chi si affermi danneggiato, che la cosa distrutta avesse un concreto valore oggettivo, e non solo eventuale ed ipotetico.

Liquidazione equitativa del danno: la natura non sostitutiva dell’art. 1226 c.c.

La liquidazione equitativa ha, inoltre, natura “non sostitutiva”, nel senso che non può farsi ricorso ad essa per sopperire alle carenze o decadenze istruttorie in cui le parti fossero incorse tanto colpevoli quanto incolpevoli, sopperendo in quest’ultimo caso il rimedio della rimessione in termini.

L’impossibilità di una esatta stima del danno, dunque, non deve in alcun modo dipendere dalle parti o dai loro procuratori. Infatti, la liquidazione equitativa del danno si fonda sull’equità c.d. “integrativa” o “suppletiva”, intesa quale principio che completa la norma giuridica e strumento di equo contemperamento degli interessi delle parti nei casi dubbi, ed una diversa interpretazione dell’art. 1226 c.c., si porrebbe in contrasto col precetto costituzionale che garantisce la parità delle parti e la terzietà del giudice.

Nella fattispecie concreta, sostengono gli Ermellini, correttamente la Corte d’appello ha escluso in iure l’applicabilità dell’art. 1226 c.c., in quanto parte ricorrente non aveva dimostrato nel giudizio di merito né il valore oggettivo del manufatto al momento della sua distruzione, né l’impossibilità assoluta di dimostrarne il valore.


L\'autore

Avvocato del Foro di Enna. Formatore presso la Scuola Forense dell’Ordine degli Avvocati di Enna nel 2019, in cui ha curato l’assegnazione delle tracce e le correzioni individuali e collettive. Membro del coordinamento scientifico di Iter Iuris – Portale di informazione giuridica.