Inadempimento e leasing: il concedente ha diritto anche alle rate non scadute

Leasing e inadempimento dell’utilizzatore: restituzione del bene, pagamento delle rate scadute e non scadute, patto di deduzione. Cassazione, sez. III civ., sentenza n. 28022 del 14/10/2021

A cura dell’avv. Andrea Diamante

A seguito del ricorso della società utilizzatrice nell’ambito di un rapporto di locazione finanziaria (leasing), la Suprema Corte ha chiarito, tra le altre, un’importante questione: se sussista una nullità dei patti contrattuali attributivi al concedente il diritto di pretendere in caso di inadempimento dell’utilizzatore, la restituzione del bene, i canoni scaduti e i canoni non ancora scaduti, con obbligo di imputare a difalco del proprio credito di quanto ricavato dalla vendita o dal reimpiego fruttuoso del bene (c.d. “patto di deduzione”).

Leasing, canoni non scaduti e patto di deduzione: ordine pubblico economico e ingiustificato arricchimento

Il ricorrente censurava, per quanto qui importa, l’erroneità della decisione della corte territoriale, sostenendo la nullità per contrarietà all’ordine pubblico economico della clausola penale in seno al contratto che prevedeva il diritto della concedente, in caso di risoluzione del contratto, di trattenere i canoni già pagati, di pretendere il pagamento dei canoni ancora in scadenza previa attualizzazione e di pretendere la restituzione del bene, col solo obbligo di defalcare dal proprio credito quanto ricavato dal reimpiego del bene (il valore di realizzo), diversamente avallando la legittimità di un ingiustificato arricchimento in favore del concedente, il quale avrebbe così conservato la proprietà del bene, incassando in un tempo e i canoni scaduti e quelli a scadere.

Invero, ad avviso del ricorrente, in caso di risoluzione del contratto di leasing, il concedente potrebbe pretendere a titolo di risarcimento del danno solo la remunerazione per il godimento del bene, ma non il danno da mancato guadagno.

Leasing: validità del patto di attribuzione dei canoni scaduti e non ancora scaduti

Come ricorda la Suprema Corte, la validità del patto con cui si attribuisce al concedente, in caso di inadempimento dell’utilizzatore, il diritto di pretendere i canoni scaduti e quelli non ancora scaduti, previa detrazione del valore ricavato dalla vendita del bene oggetto del leasing, è stata già ammessa dalle Sezioni Unite, nell’ambito della decisione con cui ha trovato composizione il contrasto circa gli effetti che la riforma della Legge Fallimentare (art. 72 quater) ha avuto sulla disciplina della risoluzione per inadempimento del contratto di leasing (Sez. U., sentenza n. 2061 del 28/01/2021).

In particolare, simili patti costituiscono «espressione di una razionalità propria della realtà socioeconomica», sorti nella pratica commerciale e che il legislatore ha anche recepito nella L. n. 124 del 2017. Per cui non è inibito alle parti del contratto di leasing prevedere che i canoni scaduti restino acquisiti al concedente ai sensi dell’art. 1526 c.c., comma 2, così come prevedere che i canoni futuri ancora non scaduti siano dovuti al concedente a titolo di penale ex art. 1382 c.c.. In questi casi, è però onere del concedente, nell’esigere il proprio credito verso l’utilizzatore, «indicare la somma ricavata dalla diversa allocazione del bene oggetto del contratto ovvero, in mancanza, allegare una stima attendibile del relativo valore di mercato all’attualità, onde consentire al giudice di apprezzare l’eventuale manifesta eccessività della penale, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1526 c.c., comma 2»

Tali patti, lungi dal violare il c.d. “ordine pubblico economico” – inteso convenzionalmente quale complesso delle norme, dei principi e degli istituti intesi a garantire il corretto svolgimento dei rapporti tra privati in materia economica (Sez. 1, Sentenza n. 1184 del 21.1.2020, p. 3.3 dei “Motivi della decisione”) -, semmai lo ripristinano, in quanto al contrario infranto proprio dall’inadempimento dell’utilizzatore. L’ordinamento, quindi, garantisce in egual misura tanto la protezione contro gli abusi di posizioni dominanti, quanto il diritto di iniziativa economica, per cui l’imprenditore ha il dovere di rispettare le regole poste dall’ordinamento, tuttavia anche il diritto di pianificare in piena libertà le proprie strategie imprenditoriali e commerciali (Sez. 1, Sentenza n. 1184 del 21.1.2020).

In tal senso, sono stati ritenuti contrari “all’ordine pubblico economico” patti stipulati al fine di aggirare la normativa antimafia o la libera concorrenza (Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 6068 del 4.3.2021), i contratti stipulati con lo Stato concepiti per recar danno all’erario (Sez. U, Sentenza n. 2157 del 1.2.2021), i contratti stipulati al fine di dissimulare lo stato di decozione d’una impresa commerciale (Sez. 1, Ordinanza n. 16706 del 5.8.2020) od ancora gli accordi e le condotte violative delle norme che prescrivono l’indipendenza dell’attestatore di un concordato preventivo ex art. 161, comma 30. dellea L. Fallimentare (Sez. 1, Ordinanza n. 12171 del 22.6.2020). Tutti casi di nullità, spiega la Corte, cui si è pervenuto attraverso l’ordinaria applicazione delle norme sulla simulazione, sulla nullità per illiceità della causa o dell’oggetto, o quelle sulla nullità del contrato per contrarietà a norme imperative, a riprova «che il concetto di “ordine pubblico economico” finisce spesso per essere, in concreto, una quinta ruota del carro».

Nel caso di specie, poi, la clausola di cui si asserisce la nullità costituisce nient’altro che la trascrizione quasi fedele dell’art. 13, commi 2, 3 e 4, della convenzione di Ottawa sul leasing internazionale, ratificata con L. 14 luglio 1993, n. 259: di tal ché è impensabile statuire la contrarietà di detta clausola all’ordine pubblico economico nazionale quando si pone in netta coerenza con l’ordine pubblico economico internazionale. Senza contare, inoltre, che la clausola in oggetto è pure conforme ai canone normativi, ribadendo precetti già desumibili dall’ordinamento, nella misura in cui consente al concedente di trattenere i canoni incassati (art. 1526 c.c., comma 2), di pretendere a titolo di risarcimento i canoni ancora dovuti salva ovviamente la possibilità di riduzione in sede giudiziale(art. 1382 c.c.), vieta al concedente di acquisire oltre l’intero importo del finanziamento anche il valore del bene oggetto del contratto, impedendogli quindi di ricavare dall’inadempimento del contratto un vantaggio addirittura maggiore rispetto a quello scaturente dalla sua regolare esecuzione.

Pertanto, la Suprema Corte ha enunciato il seguente principio di diritto: «nel contratto di leasing traslativo è valida ed efficace la clausola la quale stabilisca che, in caso di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore, spettino al concedente i canoni già scaduti e i canoni ancora non maturati, scontati al momento della risoluzione del contratto, previa detrazione del valore di mercato del bene oggetto del contratto al momento della risoluzione».

Leasing: validità del patto di deduzione con determinazione unilaterale del valore del bene

Con riferimento al c.d. “patto di deduzione”, quindi della clausola con cui le parti convengono la detrazione del valore del bene dal credito del concedente nel caso di risoluzione del contratto per inadempimento dell’utilizzatore, la Suprema Corte ha ritenuto scorretto l’assunto secondo cui l’utilizzatore risulterebbe libero di procedere o meno all’operazione di riallocazione secondo le proprie insindacabili determinazioni, da cui l’avanzata richiesta di dechiararne la nullità.

Invero, in punto di diritto il concedente resta proprietario di quel bene di cui riacquisisce il possesso e le è concesso decidere se venderlo, riutilizzarlo o goderne direttamente. Per la Suprema Corte rileva semmai il come debba essere quantificato il “sottraendo” nel calcolo del credito residuo del concedente e la mancanza di indicazioni in tal senso nel contratto non può essere causa di nullità della clausola in esame.

I contratti infatti si interpretano in buona fede (art. 1366 c.c.), e in buona fede si eseguono (art. 1375 c.c.). Ed alla luce del criterio di buona fede il valore del bene da portare in detrazione dal credito del concedente non potrà che essere il valore equo di mercato (c.d. fair value), nel luogo e al tempo della risoluzione. Se il concedente riuscirà a reimpiegare quel bene ad un valore maggiore, ovviamente l’intero ricavato andrà portato in detrazione, in virtù del principio della compensatio lucri cum damno. Se il concedente non dovesse riuscire a realizzare il valore di mercato per propria trascuranza o maltalento, dovrà comunque detrarre dal proprio credito il valore di mercato, e non la minor somma ricavata, in virtù del principio di cui all’art. 1227 c.c., comma 2, (sempre che la relativa eccezione sia stata tempestivamente sollevata). Se, infine, il concedente non dovesse riuscire a realizzare il valore di mercato non per propria negligenza, ma a causa delle oggettive condizioni di mercato, avrà diritto di detrarre dal proprio credito il valore effettivo di realizzo.

La Suprema Corte ha quindi enucleato i seguenti principi di diritto:

«E’ valido ed efficace il patto contenuto in un contratto di leasing traslativo il quale attribuisca al concedente, in caso di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore, la facoltà di determinare unilateralmente il valore del bene oggetto del contratto, e sottrarlo dal credito residuo vantato nei confronti dell’utilizzatore. Tuttavia tale patto ha per corollario l’obbligo del concedente di stimare il bene secondo correttezza e buona fede; in caso di contestazione della stima da parte dell’utilizzatore, è onere del concedente palesare il criterio adottato, e del concedente dimostrarne l’erroneità».

«Il c.d. patto di deduzione, in virtù del quale nei contratti di leasing traslativo si stabilisce che il concedente, nel caso di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore, ha diritto a titolo di penale al pagamento dei canoni scaduti e di quelli futuri, attualizzati al momento della risoluzione, previo diffalco di quanto ricavato dalla vendita del bene, deve essere interpretato ed applicato secondo correttezza e buona fede, con la conseguenza che: a) se al momento in cui il concedente esige il proprio credito (restitutorio e/o risarcitorio) nei confronti dell’utilizzatore il bene è stato già rivenduto, il concedente dovrà portare in diffalco il ricavato, salva la responsabilità del concedente ex art. 1227 c.c., comma 2, nel caso di vendita ad un prezzo vile per propria negligenza; b) se al momento in cui esige il proprio credito nei confronti dell’utilizzatore il bene non è stato ancora rivenduto, il concedente dovrà portare in diffalco il valore commerciale del bene, stimato col criterio del valore equo di mercato».

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L\'autore

Avvocato già iscritto presso l’Ordine degli Avvocati di Enna, funzionario presso pubblica amministrazione. Formatore presso la Scuola Forense dell’Ordine degli Avvocati di Enna dal 2017 al 2019, in cui ha dapprima curato il piano formativo e dopo anche coordinato l’attivatà dei formatori. Fondatore e direttore di Iter Iuris – Portale di informazione giuridica.