Associazione mafiosa: la mera affiliazione non sempre costituisce grave indizio

La mera affiliazione o iniziazione non prova da sola la partecipazione al sodalizio mafioso. Cassazione, Sezioni Unite, sentenza 27 maggio 2021 n. 36958

a cura dell’avv. Andrea Diamante

La Massima

La condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso si sostanzia nello stabile inserimento dell’agente nella struttura organizzativa della associazione. Tale inserimento deve dimostrarsi idoneo, per le caratteristiche assunte nel caso concreto, a dare luogo alla “messa a disposizione” del sodalizio stesso, per il perseguimento dei comuni fini criminosi“.

Nel rispetto del principio di materialità ed offensività della condotta, l’affiliazione rituale può costituire indizio grave della condotta di partecipazione al sodalizio, ove risulti – sulla base di consolidate e comprovate massime di esperienza – alla luce degli elementi di contesto che ne comprovino la serietà ed effettività, l’espressione non di una mera manifestazione di volontà, bensì di un patto reciprocamente vincolante e produttivo di un’offerta di contribuzione permanente tra affiliato ed associazione“.

La Nota

Affiliazione e configurabilità del reato di associazione mafiosa. Tra tipicità e offensività

La I Sezione della Suprema Corte aveva rimesso alle Sezioni Unite, con ordinanza n. 5071 del 2021, la questione relativa alla condotta di partecipazione ad un’associazione mafiosa “storica”, invero se per la configurazione della stessa potesse ritenersi sufficiente la mera “affiliazione”. L’intervento delle Sezioni Unite era quindi stato sollecitato per chiarire «se la mera affiliazione ad un’associazione di stampo mafioso (nella specie ‘ndrangheta), effettuata secondo il rituale previsto dall’associazione stessa, costituisca fatto idoneo a fondare un giudizio di responsabilità in ordine alla condotta di partecipazione, tenuto conto della formulazione dell’art. 416-bis cod. pen. e della struttura del reato».

La Suprema Corte, con sentenza del 27 maggio 2021 n. 36958 ha affermato il principio di diritto per cui «la condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso si sostanzia nello stabile inserimento dell’agente nella struttura organizzativa dell’associazione; tale inserimento deve dimostrarsi idoneo, per le caratteristiche assunte nel caso concreto, a dare luogo alla “messa a disposizione” del sodalizio stesso, per il perseguimento dei comuni fini criminosi».

In particolare, la Suprema Corte ha inteso offrire un’ermeneutica coerente con i principi di materialità e offensività della condotta, in cui «l’affiliazione rituale può costituire indizio grave della condotta di partecipazione al sodalizio, ove risulti – sulla base di consolidate e comprovate massime di esperienza – alla luce degli elementi di contesto che ne comprovino la serietà ed effettività, l’espressione non di una mera manifestazione di volontà, bensì di un patto reciprocamente vincolante e produttivo di un’offerta di contribuzione permanente tra affiliato ed associazione».

Le Sezioni Unite spiegano che la tipicità del modello associativo delineato dall’art. 416-bis c.p. risiede nelle modalità (che si esprimono nel concetto di metodo mafioso) attraverso cui l’associazione si manifesta concretamente e non negli scopi che essa intende perseguire, delineati nel comma 3 dell’art. 416-bis c.p., per cui per l’integrazione del tipo occorre riscontrare empiricamente che il sodalizio abbia dato effettivamente prova di possedere tale “forza” e di essersene avvalso. Va pertanto superata l’interpretazione che valorizza un rilievo soggettivo, che fa risaltare la mera intenzione di “avvalersi”, dovendosi attribuire invece rilievo all’oggettività del metodo mafioso, in ossequio ai già menzionati principi di oggettività ed offensività.

Rileva la messa a disposizione e non la mera intenzione

La Suprema Corte non ha mancato di sottolineare che la nozione di “partecipazione ad associazione mafiosa” è oggetto di oscillazioni giurisprudenziali, posta l’oggettiva carenza definitoria del disposto normativo di cui all’art. 416-bis c.p., che ha reso più complessa l’individuazione dei presupposti della condotta punibile. Invero, a differenza delle attività di direzione, promozione e organizzazione, l’espressione “far parte” ha dato adito a più di un dubbio interpretativo, fermo che può rilevare un qualsiasi contributo offerto all’associazione.

Anche la Corte costituzionale ha affermato che spetta al legislatore «l’individuazione delle condotte alle quali collegare una presunzione assoluta di pericolo (nonchè) della soglia di pericolosità alla quale far riferimento purchè (…) l’una e l’altra determinazione non siano irrazionali ed arbitrarie, ciò che si verifica allorquando
esse non siano collegabili all’id quod plerumque accidit» (Corte Cost. n. 333/1991), sia sotto il profilo della tipizzazione che dell’offensività (Corte Cost. n. 225/2008), contemperando la circostanza che la condotta prevista entri in conflitto con altri valori costituzionalmente protetti (Corte Cost. n. 65/1970), oltre che con la proporzionalità della pena (Corte Cost. n. 236/2016).

A parere del Collegio, l’attribuzione ad un soggetto della qualità di “uomo d’onore” da parte di un collaboratore di giustizia assume il valore di una “notitia criminis“, e affinchè la stessa possa assurgere a dignità di indizio grave ai sensi dell’art. 192 c.p.p., si rende necessaria l’acquisizione di altri elementi probatori, in ogni insufficiente il mero accertamento della veridicità oggettiva della propalazione. Pertanto, fuori dai casi di intraneità confessata, gli statuti probatori applicabili saranno diversi a seconda che il dichiarante riferisca quanto appreso da altri oppure riveli quanto accaduto in sua presenza perchè ha preso parte alla cerimonia, ovvero il soggetto gli è stato presentato come “uomo d’onore”, ovvero ancora è entrato in contatto con il soggetto che si è rapportato a lui come “uomo d’onore”.

In tal senso, ad avviso delle Sezioni Unite è necessario guardare alla condotta posta in essere dall'”affiliato”, alla stabile e duratura e potenzialmente permanente relazione con l’associazione, non tanto e non solo invece al fatto che lo sia sulla base dell’avvenuta affiliazione formale e “rituale”, sì da non dare rilievo causale alla mera e semplice “intenzione”. In questo senso, «la condotta di partecipazione punibile potrà dirsi provata quando la “messa a disposizione” assuma i caratteri della serietà e della continuità, attraverso comportamenti di fatto, precedenti e o successivi al rituale di affiliazione, non necessariamente attuativi delle finalità criminali dell’associazione, ma tuttavia capaci di dimostrare in concreto l’adesione libera e volontaria a quella consapevole scelta e di rivelare una reciproca vocazione di “irrevocabilità” (intesa, nel senso di stabile e duratura relazione, potenzialmente permanente), testimoniandosi in fatto e non solo nelle intenzioni il rapporto organico tra singolo e struttura».

Ed è così che «la “messa a disposizione” non solo costituisce l’effetto dell’ammissione al gruppo, ma indica un comportamento oggettivo e non solo  intenzionale, attuale e non meramente ipotetico che finisce così per concretizzare e rendere riconoscibile il profilo dinamico della partecipazione, non potendo questo effetto condizionarsi in negativo e legarsi esclusivamente alla successiva – e, a volte, solo eventuale – “chiamata” per l’esecuzione di un incarico specifico, essendo l’adepto già inglobato nel gruppo e pronto per le necessità attuali o future della consorteria».

Una lettura che si pone in continuità con l’indirizzo normativo eurounitario, atteso che la stessa nozione di partecipazione recepita dalla Decisione Quadro n. 2008/841/GAI del Consiglio relativa alla lotta contro la criminalità organizzata,  incrimina all’art. 2  «il comportamento di una persona che (…) partecipi attivamente alle attività criminali dell’organizzazione, ivi compresi la fornitura di informazioni o mezzi materiali, il reclutamento di nuovi membri, nonchè qualsiasi forma di finanziamento delle sue attività, essendo consapevole che la sua partecipazione contribuirà alla realizzazione delle attività criminali di tale organizzazione».

Il comportamento dunque diviene “indice rivelatore” del fatto punibile, apprezzato nella sua oggettiva e concreta realtà, teso ad agevolare il perseguimento degli scopi associativi in modo riconoscibile e non puramente teorico, sicché deve potersi univocamente riconoscere ed interpretare come condotta indicativa dello stabile inserimento nel gruppo. Ed in tal senso è possibile cogliere pure un riferimento ermeneutico nel D.L. 7/2015, in cui il Legislatore, avendo inteso punire il mero reclutamento, ha introdotto una previsione incriminatrice ad hoc in tema di terrorismo.

La rilevanza dello stabile inserimento nell’organizzazione. L’irrilevanza della mera affiliazione

Alla luce di quanto argomentato , la Suprema Corte ha enunciato il principio di diritto cui si deve far riferimento nell’individuazione della condotta penalmente rilevante ai fini della valutazione dell’accertanda partecipazione dell’agente al sodalizio criminoso di cui all’art.  416-bis c.p.:

La condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso si sostanzia nello stabile inserimento dell’agente nella struttura organizzativa della associazione. Tale inserimento deve dimostrarsi idoneo, per le caratteristiche assunte nel caso concreto, a dare luogo alla “messa a disposizione” del sodalizio stesso, per il perseguimento dei comuni fini criminosi“.

Inoltre, le Sezioni Unite hanno financo elaborato il principio di diritto che deve guidare la critica valutazione dell’affiliazione, quandunque questa possa essere rivelatrice di una concreta e reale partecipazione ai fini dell’organizzazione criminosa:

Nel rispetto del principio di materialità ed offensività della condotta, l’affiliazione rituale può costituire indizio grave della condotta di partecipazione al sodalizio, ove risulti – sulla base di consolidate e comprovate massime di esperienza – alla luce degli elementi di contesto che ne comprovino la serietà ed effettività, l’espressione non di una mera manifestazione di volontà, bensì di un patto reciprocamente vincolante e produttivo di un’offerta di contribuzione permanente tra affiliato ed associazione“.

LEGGI IL PROVVEDIMENTO

L\'autore

Avvocato già iscritto presso l’Ordine degli Avvocati di Enna, funzionario presso pubblica amministrazione. Formatore presso la Scuola Forense dell’Ordine degli Avvocati di Enna dal 2017 al 2019, in cui ha dapprima curato il piano formativo e dopo anche coordinato l’attivatà dei formatori. Fondatore e direttore di Iter Iuris – Portale di informazione giuridica.